Vite di scarto

Sta facendo molto discutere in questi giorni la sentenza della Corte Costituzionale che ha deciso la non punibilità del suicidio assistito in alcuni casi specifici, come il caso dj Fabo – Cappato. La sensazione è che ci troviamo di fronte a un punto di svolta: il messaggio che arriva e che coinvolgerà le vite delle persone più deboli e dei loro familiari che hanno dedicato la vita per assisterli è che si può morire, si può essere aiutati in questo, anzi deve farlo il medico che, da sempre, è colui che opera per la guarigione e la cura del malato, per la tutela della sua vita.
Sono stati diversi gli Ordini dei Medici insorti contro una decisione che influenzerà il loro lavoro e, aggiungiamo, comprometterà tutto il clima di fiducia che deve esserci tra medico e paziente. Ma anche dal punto di vista legale si aprono fronti non banali e soprattutto a livello culturale, tra i giovani, potrà subentrare la concezione, già in parte presente, che certe vite non valgono e non vale la pena che vengano vissute. Cio’ che viene reputato dai Radicali come una conquista di libertà per tutti, anche per chi la pensa diversamente, potrà invece trasformarsi in una ideologia che renderà difficile la scelta di chi invece vuole continuare a vivere pur in condizioni difficili e clinicamente dispendiose.
Tra le problematiche che si porranno c’è l’interpretazione delle restrizioni previste dalla Consulta e il possibile allargamento della non punibilità applicata ad altre malattie e circostanze di vita. Scrive oggi in una lettera su ‘Avvenire’ Gandolfini, medico neurochirurgo, che c’è il rischio che nelle ‘patologie irreversibili’ previste dalla Consulta possano prima o poi rientrare patologie neurodegenerative come Sla, Parkinson, demenza e poi forme invalidanti come la cefalea a grappolo o la depressione endogena.
‘Pensiamo – scrive Gandolfini – che chiunque di noi si trovasse nelle condizioni cliniche delle patologie sopra menzionate e tante, tante altre consimili, magari con l’aggiunta dell’evidente disagio e ‘disturbo’ manifestato da familiari o conviventi, e con la pressione sociale che invoca il ‘meglio togliersi di mezzo, perché oltretutto costi e sottrai risorse alla società’ sarebbe nella condizione oggettiva di formulare decisioni veramente libere ed equilibrate? In palese contraddizione, in aggiunta, con l’affermazione finale del comunicato: per «evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili».
Chi è più vulnerabile di un grave disabile, come sopra descritto? (…) Si lasci che il medico faccia il ‘mestiere’ per il quale ha studiato, lavorato e impegnato ore e ore di studio: difendere la vita, prevenire e curare le malattie, lenire il dolore. Personalmente mi sento gratificato e – permettetemi – felice quando dopo ore di sala operatoria ho asportato un tumore cerebrale; e mi sento offeso se si pretende che in pochi minuti infili un ago nel braccio del mio paziente per iniettare il «farmaco letale». Ore per salvare una vita, due minuti per uccidere: questa non è medicina. Dunque, sì, se proprio si vuole, si compili una lista di ‘funzionari statali’ addetti a questa abbietta incombenza e si lasci al medico il compito che gli compete da millenni”.