Eminenza, come i vescovi europei vivono questo anniversario e perché avete voluto abbinare il vostro giubileo al messaggio della Fratelli tutti, l’Enciclica che tra qualche giorno compie un anno?
Intanto c’è la gioia per questo giubileo, è proprio una grazia, sono cinquant’anni, vita non lunghissima ma anche molto significativa del nostro organismo. Tra l’altro, piccolo dettaglio personale, la fine del mio mandato coincide con questo giubileo. La cosa, confesso, mi parla, mi fa piacere. Sono cinquant’anni di vita, di servizio alla Chiesa, che hanno espresso la profezia di San Paolo VI alla fine del Concilio Vaticano II quando, alla fine del 1971 ritenne di istituire un organismo di questo tipo che esprimesse in modo più evidente quella comunione ecclesiale – oggi si parla molto volentieri di sinodalità ecclesiale – per noi soprattutto a livello continentale. Non ha compiti assolutamente di guida, indirizzo particolare rispetto alle singole Conferenze episcopali e alle singole nazioni. Ha per scopo statutario la conoscenza reciproca, lo scambio delle esperienze pastorali, le analisi delle sfide ed eventuali orientamenti sia culturali, sia pastorali ed ecclesiali che possono scaturire, cose che poi devono e possono essere assunte liberamente dalle singole Conferenze episcopali. Il riferimento all’Enciclica Fratelli tutti è ovvio quasi, naturale, doveroso anche, intanto perché è l’ultimo documento del Santo Padre, e questo merita tutta l’attenzione come ogni suo documento magisteriale, e poi perché il tema della fraternità universale alla luce del Vangelo è particolarmente pertinente al nostro compito e alla nostra missione. Perché l’annuncio del Vangelo in Europa, la ri-evangelizzazione, se conduce veramente a Cristo, non può non condurre sia ad una dimensione di presenza operosa, caritativa in tutti i sensi e sia innanzitutto a un sentire comune che è fondamento di ogni fraternità.
L’Europa è costantemente invitata dal Papa a riscoprire le sue radici cristiane e, congiuntamente, a praticare l’accoglienza dello straniero e del povero. L’Europa è pronta?
Quando il Papa parla e scrive di umanesimo cristiano, del nuovo umanesimo, centra la sintesi tra l’accoglienza di Cristo e la cultura. E’ necessario, anche dal nostro punto di vista di vescovi che vivono in diverse nazioni, un recupero dell’incontro e della declinazione della fede perché diventi cultura. Già San Paolo VI lo diceva chiaramente, ripreso poi da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. Il Santo Padre rilancia fortemente questa necessità, perché la fede da un lato non può rimanere astratta o intimista, dall’altro non può diventare una forma di pratica alla luce solo del buon senso comune e non invece come conseguenza di una radice, di un fondamento che è proprio l’incontro con il Signore. Questo è dunque assolutamente necessario perché la fede diventi vita, anche nella visione d’insieme delle società e del continente. Non è, tengo a precisare, un vestito che viene messo dall’esterno, una visione antropologica ispirata cristianamente. Non è un progetto esterno. Nasce dall’interno, proprio dalla nostra storia e basta citare tutta la filiera della carità nell’Europa, ciò che i benedettini, i religiosi, i pellegrini hanno creato in Europa: gli ospizi ovunque, le università nate nel grembo della Chiesa, i sistemi civili, il diritto, le cattedrali… Basta solamente citare queste cose a volo d’uccello per capire che non si può avere paura di incontrare Cristo e di declinarlo e di viverlo nella vita come singoli, ma anche come società e come continente, perché questa è la vocazione fondamentale dell’Europa: un umanesimo integrale, un nuovo umanesimo.
Fonte: www.vaticannews.va