Francesco: ‘Non c’è cultura nello sfruttamento’

Il coraggio del pettirosso, dal titolo di uno dei suoi libri più noti, stavolta è stato il suo. Il romanziere-Davide che si interroga sull’etica dell’industria-Golia, di cui egli stesso è membro autorevole, in questo caso quella editoriale, perché disgustato da certa noncuranza con cui essa talvolta evita di appurare se parte dei suoi profitti nascondano situazioni disumane, se sotto la finezza dei suoi prodotti ci sia una filiera della violenza su chi li produce, se dietro il luccichio della facciata annidino storie invisibili di prede inermi e di crudeli predatori. E a specchio, sull’altro versante, le ben note convinzioni del Papa, in certo modo un “collega” di penna e soprattutto una “voce alta” cui rivolgere la domanda che tradisce il dilemma di fondo: “Val la pena di produrre belle e sagge opere se per farlo abbiamo bisogno del lavoro degli schiavi?”.
A confronto con Francesco
È un dialogo a distanza originale e intenso quello che si è sviluppato in questi giorni tra Maurizio Maggiani, scrittore e giornalista ligure, e Francesco, che ha voluto rispondere al romanziere con una lettera – datata 9 agosto, giorno in cui la Chiesa celebra Edith Stein, Santa Teresa Benedetta della Croce, compatrona d’Europa – a un interrogativo sollevato pubblicamente dall’autore in una lettera aperta, uscita il primo agosto scorso sulle colonne del Secolo XIX, che oggi, assieme alla Stampa e altri giornali del gruppo, pubblica la replica del Papa. Maggiani ha voluto condividere direttamente con Francesco la “vergogna” provata nell’apprendere da un fatto di cronaca nera che anche la realizzazione dei libri suoi e di altri autori passava attraverso un’azienda veneta, e lo stabilimento subappaltatore in Trentino, accusati entrambi dalla magistratura di aver sfruttato con metodi criminali, “fino all’indicibile” scrive Maggiani, il lavoro di operai pakistani, letteralmente brutalizzati.
“Ho provato vergogna di me”
Maggiani, che si definisce non credente (conosco, scrive, “la prorompente forza profetica” di Cristo “ma non ho mai avuto il dono, la grazia, di pazientare per tre giorni al suo sepolcro, aspettare con Maria di Magdala e constatare la resurrezione del figlio di Dio”), afferma di essersi rivolto a Francesco per una serie di ragioni, non ultima quella di una sensibilità condivisa. “Le storie che mi piace raccontare e che sento il dovere di farlo – dice il romanziere – sono le storie dei silenti, degli ultimi e degli umili”, ma l’indifferenza al suo perché riscontrata nei colleghi di settore, “come fosse una domanda oziosa”, lo ha spinto a rivolgerla a “Sua Santità, perché – confessa – con tutto il mio cercare non riesco a vedere nessuna altra autorità morale che oltre ad avere alta voce è disponibile ad ascoltare, a chiedersi prima di giudicare”. A interrogarsi appunto sulle implicazioni scaturite dall’orrore consumato in quel moderno lager, costruito sulla pelle di poveri immigrati con paga da fame, senza orari e diritti, presi a calci e pugni se osavano chiederne il rispetto: “Ho provato vergogna di me, di me che sto così attento a tenermi le mani pulite e non servirmi di prodotti in sospetto di sfruttamento schiavistico, eppure – ammette lo scrittore – non ho mai riflettuto sull’evidenza che il mio lavoro di romanziere, così nobile”, è “parte di una catena del sistema produttivo, quella che pudicamente chiamiamo filiera, non dissimile da ogni altra, e dunque passibile delle stesse aberrazioni”.
Fonte: www.vaticannews.va